Commercio: quattro anni di deregulation, Confesercenti al Senato

La delegazione della Confederazione, guidata dal Segretario Generale Bussoni, in Audizione presso la X Commissione (Industria, Commercio, Turismo) 

Il Governo Monti – con il decreto legge 201 del 2011, altrimenti noto come SalvaItalia – ha improvvisamente imposto a tutto il settore del commercio un regime di totale deregulation degli orari delle attività commerciali, rendendo possibile dal primo gennaio 2012 l’apertura 24 ore al giorno tutti i giorni dell’anno, domeniche e festività incluse. Un regime di fatto insostenibile – a partire dal fattore lavoro – per le quasi 700mila Pmi del commercio al dettaglio attive in Italia, e che sta portando alla scomparsa di migliaia di imprese e posti di lavoro; ma che continua ad essere sostenuto in nome di presunti effetti economici positivi su consumi ed occupazione che, però, non si sono mai concretizzati.

Secondo il governo, il provvedimento avrebbe dovuto dare una spinta positiva alla crescita dei consumi, incrementando la libera concorrenza e adeguando il nostro quadro normativo a quello europeo. Noi riteniamo, invece, che la norma abbia arrecato un grave danno proprio al principio della libera concorrenza che intenderebbe invece sostenere, riducendo sensibilmente le possibilità di competere dei piccoli esercizi commerciali a solo vantaggio della grande distribuzione organizzata. A rischio è il pluralismo distributivo italiano, una ricchezza per il Paese.

 

Consumi fermi

Alla base dell’intervento di deregulation c’era l’idea che, aumentando le occasioni di acquisto, i consumatori avrebbero comprato di più. Così, con l’introduzione della possibilità per le imprese commerciali di aprire 24 ore su 24, 365 giorni l’anno, ci si aspettava una ripresa dei consumi. Purtroppo non è andata così: dal 2012 al 2013 la spesa delle famiglie italiane si è ridotta di 60 miliardi. Un vero e proprio crollo senza precedenti dovuto al fatale mix di aumento della pressione fiscale, incremento della disoccupazione e riduzione del reddito disponibile registrato nel Paese negli ultimi anni.

Nemmeno nel 2014 c’è stata la svolta auspicata. Il reddito ha mostrato segni di miglioramento, ma la spesa è rimasta stabile, nonostante  il sostegno dato alle famiglie dal bonus di 80 euro: senza i 7 miliardi distribuiti con l’intervento, avremmo quindi probabilmente chiuso di nuovo l’anno in rosso. Agli italiani, in sostanza, mancano i soldi da spendere, non le occasioni per farlo.

 

Tab. 1: Pil, Importazioni e Spesa delle famiglie, variazioni percentuali annuali, 2011-2014

2012/2011

2013/2012

2014/2013

PIL

-2,8%

-1,7%

-0,4%

Importazioni

-8,3%

-2,2%

1,6%

Spesa delle famiglie

-4,0%

-2,8%

0,3%

 

Tab. 2: Spesa delle famiglie, variazioni complessive 2014-2011 (valori assoluti e percentuali)

  Variazione complessiva 2011-2014

Valori assoluti

-60 miliardi di euro

Valori percentuali

-6,5%

 

Piccole imprese sempre più fragili, dal 2012 sparite 73mila attività

La deregulation totale, cui si è arrivati improvvisamente, ha inciso pesantemente sull’organizzazione del mercato, del lavoro e sulla vita delle comunità. Oltretutto, come abbiamo visto, la riforma è arrivata nel pieno della più drammatica crisi economica che il Paese abbia conosciuto dal secondo dopoguerra, una recessione che ha colpito particolarmente i consumi privati, ancora oggi al palo. L’intervento di deregulation, in questo quadro, ha avuto un effetto devastante sulle piccole e micro imprese commerciali. Il crollo dei consumi e la distorsione della concorrenza nata a seguito della deregulation hanno impresso una netta accelerazione all’emorragia di piccole e medie imprese del commercio. Tra il 2012 e i primi 4 mesi del 2015, hanno abbassato la serranda centinaia di migliaia di attività, per un saldo tra aperture e chiusure a negativo di 73.653 unità.

 

Tab. 3: Saldo aperture/chiusure di impresa nel commercio al dettaglio, 2012-2015*

  Saldo aperture/chiusure 2012-2015*
Commercio al dettaglio -73.653

*primo quadrimestre

 

Le aperture nel weekend favoriscono la Gdo

A mettere in difficoltà le attività commerciali più piccole è stato il rapido cambiamento delle abitudini di acquisto dei consumatori indotto dalla liberalizzazione. La spesa delle famiglie non è aumentati, ma si è modulata diversamente nel corso della settimana, concentrandosi nel weekend. Proprio i giorni in cui le grandi strutture commerciali realizzano gran parte dei propri ricavi, dovuti non a nuovi consumi ma al trasferimento degli stessi a sfavore degli esercizi di vicinato. In particolare, le aperture domenicali sistematiche spostano i consumi dai giorni feriali alla domenica, durante la quale si totalizzerebbero il 16,5% delle vendite totali della settimana. Oltre il doppio del 7% registrato in un regime che prevede limiti alle aperture.

Si spostano le quote di mercato

La liberalizzazione ha dunque favorito la grande distribuzione, contribuendo all’aumento dell’erosione di quote di mercato della gran parte dei piccoli esercizi, che hanno perso il  3,3%, a favore della grande distribuzione.

Questi, infatti, non sono nelle condizioni di poter sostenere l’aggravio di costi, diretto ed indiretto, in particolare a valere sul fattore lavoro, derivante dalle aperture domenicali. Ha sofferto di più il comparto non alimentare, -4,6%, rispetto all’alimentare, -3,0%.

La riduzione delle vendite ha riguardato sia la grande che la piccola distribuzione, ma con valori diversi:

• gli esercizi su piccole superfici hanno perso complessivamente il 7,8%

• la grande distribuzione ha registrato una flessione di 2,2 punti percentuali.

• all’interno dei grandi format, però, i discount aumentano le vendite del 5,7%.

 

Se consideriamo le dinamiche al netto dell’inflazione, quindi in termini di volume, i dati segnalano un vero e proprio tracollo delle vendite per i piccoli esercizi: – 11.9% nel triennio. Secondo nostre stime, le quote della GDO sono:

• il 60,3% per il totale dei beni

• il 74% nel settore alimentare/largo consumo

• il 59% nel settore non alimentare

 

 

Liberalizzazioni: provvedimento a favore dei consumatori o della GDO?

In realtà, i reiterati tentativi di deregulation che si sono susseguiti dal 1995, anno del Referendum, fino al decreto Salva Italia nel 2011, hanno sempre cercato di dare risposte non ad una oggettiva e plausibile richiesta dei consumatori – richiesta che il referendum ha dimostrato non esistere – ma ad un’incessante insistenza dei gruppi della Grande Distribuzione Organizzata.  E’ sotto gli occhi di tutti, infatti, il proliferare abnorme di centri commerciali, Ipermercati, Factory Outlet e altri grandi concentrazioni commerciali. Strutture che hanno trovato terreno fertile nelle Amministrazioni Comunali e Regionali, interessate a far cassa con gli oneri di urbanizzazione e convinte – purtroppo illusoriamente – di garantire lo sviluppo dell’economia locale, attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro. L’idea che l’apertura non sia un obbligo e che la libertà di esercizio garantisca maggiore concorrenza ci sembra contrastare con i più elementari principi economici. Se così fosse, perché non riorganizzare non il solo commercio, ma tutto il sistema dei servizi, anche pubblici (asili, trasporti, scuole, banche, etc.) affinché chi lavora la domenica ne possa fruire? Per Confesercenti, le aperture domenicali e festive nei comuni turistici e in particolari occasioni non sono mai state un problema, anzi un impegno per garantire servizi indispensabili.

 

Gli impatti sul lavoro e la vita personale degli operatori del commercio

In questi quattro anni, la deregulation ha portato ad un ulteriore peggioramento della vita delle piccole e micro imprese commerciali e a un peggioramento delle condizioni dei lavoratori dipendenti, sottoposti a regimi lavorativi giornalieri e settimanali spesso incompatibili con la vita familiare, senza che tutto questo abbia però determinato una crescita dell’occupazione stessa. Va poi considerato che gran parte della mano d’opera occupata nel settore è femminile, per cui il problema risulta ancora più acuto, stante il carico di lavoro di cura che ancora grava in prevalenza sulle donne nel nostro Paese a fronte di servizi per la conciliazione tra lavoro e famiglia assolutamente insufficienti. Giova anche ricordare che si tratta spesso di un lavoro scarsamente retribuito, anche a causa della forte incidenza del part-time obbligatorio e della non trascurabile incidenza di lavoro precario nel settore. Non va, infine, dimenticato che anche la condizione del lavoro autonomo, segnatamente i piccoli negozi, conosce problemi analoghi. La liberalizzazione introdotta con il decreto salva Italia ha espropriato, da un lato, le regioni delle proprie prerogative in materia – riconducendo la disciplina del settore all’unico principio della concorrenza si è di fatto annullata la potestà concorrente delle regioni, a partire dalla programmazione territoriale – e, dall’altro, i comuni dal proprio ruolo di regolatori degli orari delle città.

 

Il lavoro autonomo: esistenza in vita delle imprese sempre più breve

Non va, infine, dimenticato che anche la condizione del lavoro autonomo, segnatamente i piccoli negozi, conosce problemi analoghi. Tra gli indicatori più significativi dello stato di crisi del sistema delle MPMI c’è infatti la lunghezza dell’arco di vita delle imprese. A dicembre 2014, la percentuale di imprese del commercio che è cessata entro i primi tre anni di vita era del 48,4%. Nel 2001 era del 27,7%.

 

Percentuale di imprese iscritte dal 2001 al 2011 e già cessate entro i primi tre anni di vita (%)

Settore

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

Totale imprese

20,3

21,1

21,9

23,2

23,9

24,2

24,9

25,0

25,7

26,8

27,2

Commercio

27,7

30,1

30,8

33,8

35,1

34,9

35,1

35,5

35,2

39,5

48,4

 

Impatto sociale: la desertificazione delle città

L’emorragia di imprese del commercio sta causando una nuova emergenza: quella degli affitti. Secondo una ricerca condotta da Anama-Confesercenti, nel 2014 in Italia i negozi sfitti per ‘assenza di imprese’ sono ormai 600mila per una perdita annua di 25 miliardi di euro in canoni non percepiti. In termini di gettito fiscale sfumato circa 6,2 miliardi ogni anno: una cifra superiore al gettito realizzato grazie all’aumento di un punto dell’aliquota ordinaria IVA (oltre 4 miliardi). La percentuale di negozi rimasti senza affittuario varia di città in città. Secondo l’indagine Anama-Confesercenti, tra i capoluoghi presi in esame il centro storico più desertificato è quello di Cagliari, con il 31% dei negozi chiusi – quasi uno su tre. Seguono Rovigo (29%), Catania (27%) e Palermo (26%). I dati sono relativi ai soli centri storici: nelle periferie il fenomeno è ancora più forte.

 

Effetti ambientali della deregulation

La deregulation premia il commercio meno sostenibile per l’ambiente. A partire dall’inquinamento e l’aumento dei consumi  elettrici dovuti  alla liberalizzazione. Mentre si discute – giustamente – del recupero degli oltre 80 centri commerciali abbandonati in Italia, altri ne vengono costruiti, spesso con imponenti opere di cementificazione che consumano il suolo delle periferie urbane. Il commercio tradizionale è meno invasivo, occupando spazi già predisposti – da più di un secolo – all’interno dei tessuti urbani delle nostre città. E quando un negozio finisce il suo ciclo di vita viene sostituito da un’altra attività, senza lasciare cattedrali (in rovina) nel deserto a testimoniare il suo passaggio. Grazie alla flessibilità della distribuzione tradizionale, è possibile usare i negozi come volano di sviluppo nelle zone degradate delle nostre città, trasformando vicoli abbandonati in centri di aggregazione e socializzazione e valorizzazione dell’esistente.

 

Effetti sul settore turismo

I negozi sono un volano per l’industria turistica, ed il principale metodo attraverso il quale la spesa dei visitatori ricade sul territorio. Non solo: la presenza di negozi fa rivivere i centri storici delle città, i quartieri, trasformando  i rioni e le arterie storiche in  potenti attrattori turistici, e propri ‘catalizzatori’ che svolgono il ruolo di potenziatori del valore storico-culturale dei nostri centri città.

 

Valutazione dell’impatto sulle PMI obbligatoria, ma mai pervenuta

La disciplina degli orari è sempre stata considerata una materia strettamente collegata con le esigenze del territorio, quindi non riconducibile a quelle necessità di intervento macroeconomico che, ad avviso della Corte Costituzionale (cfr. sent. 14/04), legittimano l’esercizio da parte dello Stato dei propri poteri legislativi. L’impatto della  liberalizzazione degli orari, per quanto difficile ed oneroso per tutti gli operatori della distribuzione, è  tuttavia meglio assorbibile  dalle  grandi aziende, che  dispongono di indubbie maggiori potenzialità finanziarie, di know how e di risorse umane per affrontare nel medio-lungo periodo queste trasformazioni rispetto alle piccole e micro imprese. Questa differenza di impatto tra grandi e piccole imprese potrebbe rappresentare una discriminazione significativa tra le diverse componenti il sistema distributivo,  confliggendo in qualche modo con l’impostazione  dello Statuto delle imprese (Legge 11 novembre 2011, n. 180) e con la Comunicazione della Commissione europea del 25 giugno 2008, recante una corsia preferenziale per la piccola impresa (“Small Business Act” ).

 

Authority a senso unico

Alla mancata verifica dell’impatto sulle PMI si aggiunge un forte disinteresse dell’Autorità Garante per la Concorrenza nei confronti delle ragioni delle piccole imprese. Il DL Salva Italia non ha tenuto in alcun conto le conseguenze per le piccole e medie imprese del commercio, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti e che l’Autorità Garante avrebbe dovuto invece richiamare. Per ora, le indicazioni dell’autorità sono andate tutte in direzione contraria. L’Authority ha ritenuto che la nostra proposta di legge di modifica della disciplina integri una violazione dei princìpi a tutela della concorrenza. Ma va subito evidenziato come l’Antitrust, nel sollevare le proprie eccezioni, si rifaccia a propri pregressi pareri, e non consideri non solo che il testo della nostra proposta, nella versione che ha beneficiato dei successivi interventi, ha ulteriormente contemperato l’interesse alla libera concorrenza e all’autodeterminazione degli operatori economici. E che è proprio la deregulation che ha causato la vera riduzione della concorrenza, con la penalizzazione di migliaia di piccole imprese, costrette a chiudere e ad uscire dal mercato.

Solo pochi giorni fa – il primo luglio 2015 – il Presidente dell’autorità Giovanni Pitruzzella ha lanciato l’allarme sul ‘passo indietro nel processo di modernizzazione del settore commercio’ ed il “contrasto con la normativa comunitaria” che sarebbe seguito ad una revisione del regime di deregulation. Un intervento che Confesercenti ritiene fuori luogo e, cosa ancora più grave, del tutto errata: cita infatti una normativa comunitaria in materia non è mai stata prevista, se è vero che la legislazione dei più importanti Paesi dell’UE non ripropone le norme di stampo totalmente liberista attualmente applicate in Italia.

 

Il quadro normativo europeo

Tra i più importanti Stati UE nessuno pratica la deregulation totale degli orari e dei giorni di apertura delle attività commerciali: il regime vigente in Italia non ha riscontri in Europa. Eppure, il Governo ha sostenuto, in occasione di un’interpellanza alla Camera sul tema (n. 2-01379), che “si tratta […] di un intervento normativo che si adegua a quelle prescrizioni del diritto dell’Unione europea, che impongono di eliminare gli ostacoli all’esercizio delle attività economiche, che non siano giustificati da motivi imperativi di tutela di interessi irrinunciabili e che non siano proporzionati a tali eventuali esigenze”.

L’adeguamento alla normativa europea, addotto come ragione dell’intervento legislativo, si scontra con la semplice verifica delle discipline degli orari degli esercizi commerciali in applicazione negli altri Paesi europei: discipline che sostanzialmente non prevedono una liberalizzazione delle aperture domenicali ma rimettono alle autonomie locali le decisioni in merito, un po’ come avveniva nel nostro Paese prima della liberalizzazione.

Dall’analisi delle legislazioni dei Paesi dell’UE non si rileva, infatti, un atteggiamento uniformemente improntato all’incondizionata apertura dei negozi nelle giornate domenicali e festive, ma piuttosto la previsione di un sistema di deroghe che consentono, come peraltro stabiliva la previgente disciplina degli orari italiana, l’apertura degli esercizi laddove la realtà territoriale lo richiede. In Germania, Francia, Olanda, Regno Unito, esistono dei precisi limiti alle aperture delle attività commerciali.

Tutelare il lavoro indipendente: un investimento sul futuro

Occorre ricordare che in Italia un lavoratore su quattro è un indipendente: l’insieme degli imprenditori, dei collaboratori famigliari e dei professionisti, costituisce un gruppo di 6,2 milioni di lavoratori, il  25,6% dell’occupazione italiana. Bisogna porre le basi per una valorizzazione del lavoro indipendente e di impresa, tutelando – come avviene anche in Germania – le imprese più piccole con regole di buon senso. E’ un investimento anche per il futuro: il mercato sta andando verso una radicale trasformazione. Lo sviluppo dell’economia digitale, l’affermazione dell’E-Commerce, l’emergere di nuovi processi produttivi diffusi, stanno cambiando profondamente le forme distributive di merci e servizi. In questo nuovo contesto, le imprese individuali e microimprese avranno un ruolo da protagoniste.

La nostra battaglia

Da sempre Confesercenti si batte per una disciplina degli orari equilibrata, che consenta ai consumatori di soddisfare le proprie esigenze e agli operatori commerciali di poter contare su tempi di riposo adeguati per sé e per i propri dipendenti e collaboratori familiari.

La spinta ad una maggiore  apertura e competitività del mercato non può inoltre sovrastare e travolgere l’esigenza comune del rispetto di alcuni valori etici/culturali della comunità, a cui tutti i cittadini appartengono. Per questo è necessario armonizzare le opportunità di sviluppo e offerta commerciale introdotte con le liberalizzazioni con i tempi di vita delle famiglie e della comunità nel suo insieme, sia per il rispetto delle feste religiose e civili, sia per il meritato riposo dei lavoratori e per la necessità di dare comunque giusti ritmi a uno stile di vita spesso troppo frenetico e complesso.  Per il futuro del commercio, dobbiamo scegliere non il modello economicamente più efficiente, ma anche quello più sostenibile dal punto di vista sociale e umano, per noi rappresentato dal commercio tradizionale. I piccoli negozi sono vere e proprie ‘cinture di sicurezza’ e protezione sociale: costituiscono infatti un presidio urbano costante nel territorio, contribuendo a rendere le strade più sicure e protette dal degrado urbano, dal disagio sociale  e dalla criminalità.

 

La campagna Liberaladomenica

Anche dopo l’entrata in vigore della norma di liberalizzazione, Confesercenti, non ha lasciato intentata nessuna possibilità di ritornare sull’argomento, tentando di convincere il Governo dell’erroneità della scelta, in particolare ritenendo fondamentale superare lo squilibrio determinatosi con il DL n. 201/2011 a carico delle MPMI. Occorre, a tale scopo, riportare le competenze in materia di orari in capo alle Regioni e dare riconoscimento normativo alle iniziative territoriali, quali gli specifici accordi riconosciuti dalle leggi regionali e dal TU sugli enti locali. Anche alcune Regioni italiane hanno impugnato il provvedimento governativo, sulla base del fatto che la Costituzione italiana, all’articolo 117, delega alle Regioni stesse la competenza esclusiva del commercio interno. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 299, dell’11 dicembre 2012, ha però rigettato i ricorsi avverso l’art. 31, comma 1, del DL n. 201/2011 proposti dalle Regioni Lazio, Piemonte, Veneto, Sicilia, Lombardia, Sardegna, Toscana e Friuli-Venezia Giulia. Il 13 marzo 2012, alla Camera, è stato proposto, ma purtroppo non approvato, un Ordine del giorno (9/4940-A/25) per impegnare il Governo “a rivedere l’attuale disposizione in materia di liberalizzazioni prevedendo, in ragione della stessa, la formulazione di una norma apposita e specifica, di concerto con le associazioni di categoria e gli enti locali, in grado di prevedere una graduale revisione del principio delle liberalizzazioni degli orari nel settore del commercio”. Nel novembre 2012, Confesercenti, ha lanciato ‘Liberaladomenica’ una campagna per raccogliere le 50.000 firme necessarie per presentare una legge di iniziativa popolare che faccia tornare alle Regioni le competenze in materia di aperture. La campagna, ripresa da tutte le maggiori testate giornalistiche nazionali, riscuote un sostegno popolare elevato: dopo cinque mesi, ‘Liberaladomenica’ ha raccolto 150.000 adesioni, permettendo la presentazione della proposta di legge alla Camera il 14 maggio 2013.

 

La proposta Senaldi: salvare un negozio con 16 euro

La Camera ha approvato la proposta di testo unificato di cui è relatore l’onorevole Senaldi, stravolgendo il testo base e, di fatto, varando una nuova disciplina degli orari che non cambia nulla. La riduzione delle giornate di chiusura obbligatoria da 12 a 6 ogni anno, infatti, non risolve le problematiche segnalate dalle PMI: in totale, infatti, le domeniche e festività nel corso dell’anno sono 60. Inoltre, i 6 giorni di chiusura non saranno contemporanei per tutti, ma affidati alla scelta di ogni singola azienda commerciale. E’ facile prevedere, dunque, chiusure ‘a turno’ che renderanno del tutto inutile la revisione della normativa.

In questo modo, la Camera ha sbattuto la porta in faccia ai 650mila imprenditori commerciali che ancora mantengono vive le nostre città, e che hanno sostenuto la proposta di legge di iniziativa popolare lanciata da Confesercenti. Imprenditori che attendevano, dal Parlamento, una proposta ben diversa.

Come contentino, è stato proposto un fondo di sostegno al commercio di vicinato. Fondo molto esiguo: la proposta del relatore individua infatti un piatto di risorse che ammonta a 15 milioni di euro l’anno per sei anni da destinare ad interventi di ampliamento attività o efficienza energetica, più altri 3 milioni di euro l’anno per contribuire all’erogazione di contributi per fronteggiare il caro-affitti.

Bastano due conti per capire come il fondo sia del tutto insufficiente. Se consideriamo solo il 40% circa delle 470mila micro-imprese commerciali italiane con due dipendenti o meno (i negozi familiari) che sono attualmente in attivo, il fondo basterebbe a garantire appena 16 euro l’anno per ogni impresa. Una cifra troppo esigua per salvare un’attività commerciale in difficoltà.

 

La proposta di mediazione Confesercenti

Quando rivendichiamo la necessità di una nuova disciplina sugli orari, c’è chi ci accusa di sostenere battaglie di retroguardia e di difendere l’indifendibile. C’è chi ci rimprovera che “col commercio on-line si acquista 24h su 24h”, chi ci suggerisce “che bisogna adeguarsi”, e anche chi dice che i piccoli negozi sono superati non rispondono più alle esigenze dei consumatori, e che il mercato deve essere libero.

Ma nel nostro “falso libero mercato” cosa avviene? La grande distribuzione continua ad incrementare la propria quota di mercato riducendo la presenza delle altre forme distributive del commercio. L’esatto opposto di ciò che occorrerebbe favorire: una presenza equilibrata delle diverse forme distributive, unico modello che tutela realmente la concorrenza.

Confesercenti ha sempre sostenuto il principio, che laddove le condizioni socio-economiche lo richiedono, è giusto prevedere aperture domenicali e festive. Laddove non ci sono le condizioni, le aperture senza stop alterano le condizioni  di mercato.

PIU’ FLESSIBILITA’, MA RESTITUIRE LE COMPETENZE AL TERRITORIO

Per questo vogliamo rilanciare una proposta di mediazione, partendo dal testo originale del compromesso Senaldi, che prevedeva 12 chiusure obbligatorie durante l’anno. Una base di partenza congrua – si tratta di un giorno di stop al mese – che vorremmo declinare con la massima flessibilità, introducendo la possibilità da parte dei sindaci di azzerarle o raddoppiarle a seconda delle esigenze del territorio. Si restituirebbe così agli enti locali la competenza in materia di Orari dei Negozi, scippata dal Governo Monti per “garantire maggiore concorrenza”. Una scelta che ha trovato in disaccordo anche i governi regionali: Veneto, Abruzzo, Molise e Lombardia hanno richiesto l’indizione di un referendum abrogativo per cancellare l’attuale norma sugli orari.

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